Il dono del tempo presente
Il dono del tempo presente di: Francesco Cosentino
Non c’è niente di peggio di questa crisi, se non il rischio di sprecarla. Le parole di papa Francesco riescono
come sempre a leggere in profondità il tempo che viviamo, stanandoci dalla tranquillità dell’abitudine e
della routine religiosa, ecclesiale e pastorale cui siamo soliti accomodarci. Se una crisi produce una ferita,
infatti, non bisogna dimenticare che un dolore più grande potrebbe accovacciarsi alla nostra porta se quella
crisi tentassimo di tacerla, negarla, liquidarla come una passeggera parentesi. O, per dirla in positivo, «la
crisi molto spesso nasconde un’immensa Grazia… c’è quindi una lezione da imparare anche dai tempi
difficili che stiamo vivendo».[1]
La domanda del nostro discernimento ecclesiale e pastorale dovrebbe essere questa: quale lezione
possiamo imparare dalla pandemia? Qual è la grazia nascosta dentro la crisi che stiamo vivendo? Qual è il
tesoro disseminato nel campo di questo tempo incerto, per il quale dobbiamo vendere tutto?
Senza volgersi indietro
L’economista Premio Nobel per la Pace 2006 Muhammad Yunus ha pubblicato su La
Repubblica un interessante riflessione, dal titolo: «Non torniamo al mondo di prima». L’ansia di ritornare
alla cosiddetta normalità tacita la domanda su che tipo di mondo fosse quello di prima e se fosse davvero
«normale». L’inquinamento di prima, l’economia ingiusta dello scarto, l’uso smodato delle risorse, il
predominio del mercato, il modello consumistico che presiede le nostre società, è normale? Oppure questo
potrebbe essere il momento storico per chiederci che tipo di persone vogliamo essere e che tipo di mondo
vogliamo costruire? Yunus non ha dubbi e pone un serio interrogativo: «Riportiamo il mondo nella
situazione nella quale si trovava prima del Coronavirus o lo ridisegniamo daccapo? La decisione spetta
soltanto a noi».[2]
A mio parere, anche la Chiesa deve porsi onestamente davanti a questa domanda. Per non rischiare di
essere per l’ennesima volta una Chiesa «fuori dal mondo», una specie di «pianeta parallelo» dove la
spiritualità diventa una fuga dall’incarnazione nel reale, l’ancoraggio a Dio un modo per sentirci diversi e
superiori rispetto alle domande e alle ricerche dell’umanità, la preghiera una via per sposare un
soprannaturalismo saccente, e la scusa di essere altro da questo mondo e di non essere «del mondo», un
alibi per essere e vivere da «separati».
L’obiezione secondo cui noi dovremmo seguire un altro criterio non regge. Anche perché, a dirla tutta, la
domanda che da più parti si sta levando circa il ritorno alla normalità, è sostanziata di Vangelo. Ogni pagina
che racconta la missione di Gesù ci consegna in filigrana lo scontro – talvolta drammatico – sulla novità che
egli intende inaugurare e l’ostinata rigidità di chi è preoccupato solo di conservare il presente e, con esso, la
propria tranquillità. Il mondo normale di prima, quello sistemato, religioso, incastrato nella legge, è ciò che i
farisei e i dottori della legge difendono con i denti, dinanzi al vino nuovo della festa con cui uno stravagante
Messia vuole inebriare la vita; con l’ossessione per l’osservanza esteriore dei precetti tentano di frenare
l’onda travolgente della buona notizia del Vangelo, che si presenta come perenne novità e invito a
camminare, cambiare, convertirsi: perché la relazione con Dio, d’ora in poi, investe tutta la vita e il costante
movimento in cui essa è inserita.
Ecco perché il Regno dei Cieli, dice Gesù, non è per coloro che mettono mano all’aratro e poi si volgono
indietro. La conservazione, i pugni chiusi che stringono forte l’esistente, la strenua difesa dello status quo
non appartengono alla logica di Dio. Chi guarda indietro alle cipolle d’Egitto e non marcia avanti a sé verso
la Terra promessa, rischia di perdere, barattandola, quella libertà a cui è stato chiamato. Viceversa, per
andare dove va Gesù non bisogna volgersi indietro: «Saremo pronti se ci abbiamo pensato bene. E ci
penseremo bene, solo se lo avremo voluto. Se vogliamo veramente seguire Gesù, domandiamoci dove va.
Forse va in un posto dove non si può dormire, in cui si sta scomodi…».[3]
Perché per la Chiesa non dovrebbe ascoltare questo monito e continuare a muoversi nelle acque paludose
della nostalgia del passato?
Non è una parentesi
Dobbiamo di certo riprendere le attività pastorali e tutto ciò che occorre perché la fede del popolo di Dio
riceva il suo nutrimento quotidiano. Tuttavia, la pandemia e il lockdown, sopraggiunti in un tempo già
segnato da una crescente disaffezione nei confronti della fede e da un lento ma progressivo spegnimento
dell’appartenenza ecclesiale, ci chiedono di fermarci e riflettere insieme, prima di riempire nuovamente le
nostre agende parrocchiali.
Siamo stati già rapiti abbastanza, durante i mesi scorsi, dall’ansia della spoliazione e dalla sindrome di
perdere il controllo. Il vuoto che si è venuto a creare, per non aver potuto celebrare l’eucaristia e per non
aver potuto soddisfare la scaletta delle nostre attività programmate, è stato spesso mal sopportato e sono
stati fatti molteplici tentativi – alcuni veramente goffi e bizzarri – per riempire quella “solitudine” che
invece poteva essere una vera benedizione.
Ora non è il tempo di riprendere «come se nulla fosse». Come ha scritto il vescovo di Pinerolo, Olivero, che
ha rischiato di morire a causa del Coronavirus: «Questa non è una parentesi. Si deve tornare con delle
novità e dei cambiamenti. A livello di Chiesa torneremo diversi. Dio ci ha fatto capire che si può essere
Chiesa diversa».
Dobbiamo semplicemente ritornare come prima? Dobbiamo riprendere a celebrare le stesse messe di
prima e nelle stesse identiche modalità? Dobbiamo semplicemente riprendere lo stesso impianto pastorale
e appiccicarlo a questo tempo? Il seme della Parola, circolato nelle case e con ogni altro mezzo durante il
lockdown deve essere considerato un’eccezionalità da ricacciare nel dimenticatoio o, piuttosto, dovremmo
riflettere su come l’avevamo trascurato, preferendo un cristianesimo devozionistico, superficiale,
sacramentalizzato, senza percorsi formativi, senza spazi culturali, senza fede domestica e senza la centralità
della Scrittura?
Non ci sono risposte facili, ma almeno possiamo provare a porci le domande. Meglio se ogni parroco lo
facesse con la propria comunità e, ancor più, se i preti lo facessero insieme. Se ci volgiamo indietro anche
ora, perderemo l’ora del passaggio di Dio che desidera far nuove tutte le cose.
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[1] L.M. Epicoco, Stabili e credibili. Esercizi di fedeltà quotidiana, Paoline, Milano 2020, 16.
[2] M. Yunus, «Non torniamo al mondo di prima», in La Repubblica, 18 aprile 2020.
[3] P. Sequeri, Senza volgersi indietro. Meditazione per i tempi forti, Vita e Pensiero, Milano 2000, 18.
Diana Barbieri
Leggere questo contributo in bacheca mi ha allargato il cuore. Direi che è stato scritto da un prete o da un vescovo, non so.
Io che, da sempre, mi interrogo sui modi della mia appartenenza ecclesiale e sulla mia coerenza col Vangelo, faccio miei gli interrogativi che questo scritto pone; cerco di tradurli in apertura della mente e del cuore, in preghiera incessante e in disponibilità alla conversione.
Grazie.